La situazione dei molini e in generale dell'industria di trasformazione primaria e secondaria del frumento è abbastanza preoccupante per un trend che vede, in questo 2022, un aumento costante dei costi, parallelamente all'abbassamento della redditività.
Quando si parla di farine e di successiva immissione nella filiera di trasformazione si parla di difficoltà a reperire materia prima da parte delle industrie di produzione.

Oggi le farine stando subendo pesantemente gli effetti della ripresa della pandemia di Covid 19 e subito dopo il conflitto in Ucraina. Tradotto: rialzo dei prezzi, e uno scenario macro davvero inquietante dato da un mix di elementi angoscianti per il settore: un’emergenza sanitaria mondiale, l’inflazione a livelli record, problemi nella catena logistica di approvvigionamento delle materie prime, costi dell’energia schizzati alla stelle.
Lo scenario di mercato
Prima che iniziasse la guerra russo-ucraina, analizzando i prezzi a scaffale (dei supermercati) dal maggio 2019 al maggio 2021 aveva notato che il prezzo medio era già aumentato del 27% sebbene le farine non avessero ancora ancora subito incrementi.
Oggi la situazione è totalmente differente, qualche settimana Assoutenti ha rilevato un prezzo medio del pane in Italia di 5,31 euro al kg con punte di 9,8 euro al chilo e il grano tenero è risultato in calo ma prodotti come pane e biscotti erano ancora in aumento, così come la pasta, che però si produce dal grano duro (importato da zone non interessate dal conflitto in Ucraina).

Uno tra i motivi principali di questa situazione è che i molini fanno un importante uso dell’energia e ne subiscono gli aumenti da diversi mesi, oltre all’attuale difficoltà di reperimento della materia prima.
Per capire meglio costa sta dietro all'esercizio di un molino deve andare a delineare quella che è la sua fisionomia all'interno della filiera di trasformazione primaria e secondaria del frumento, perchè studiandone la redditività e la gestione dei costi è possibile fotografarne lo stato di salute.
Molini: identikit di settore
Le imprese che operano nel settore della trasformazione del frumento, sia tenero che duro, si distinguono in due categorie: quelle che producono farine e semole (trasformazione primaria) e quelle che producono pasta e prodotti da forno (trasformazione secondaria).
Sebbene le prime stiano a monte delle seconde, i parametri di valutazione della redditività non cambiano: sono sempre i prezzi di vendita e i costi, sia fissi che variabili.
Non va comunque trascurato neppure il preso della capacità produttiva, che esercita una grande influenza sui costi di produzione. Un’impresa di grandi dimensioni, infatti, spunterà prezzi di approvvigionamento più favorevoli (grazie al maggior potere contrattuale) e potrà ripartire le spese fisse su una maggiore quantità di output.
Analizzeremo sia le imprese che operano sia nell’ambito della trasformazione primaria (molini) che secondaria (pastifici e produttori di pane industriale), escludendo dall’indagine le aziende che svolgono in maniera rilevante anche altre attività.
La dimensione è importante per i molini a grano duro.
Molini grandi e piccoli
I molini, che producono farine di grano tenero e duro, vengono classificati in grandi e piccoli, a seconda della capacità di lavorazione oraria; sono considerati grandi quelli hanno una capacità produttiva superiore alle 200 t/h.
I molini a grano tenero di grandi dimensioni italiani hanno una produttività media di 600t/24h e lavorano nel complesso oltre 153 mila t di frumento all’anno, per un fatturato totale di poco inferiore ai 52 milioni di €.
Questi molini, che rappresentano appena il 16% del totale, sono concentrati (66%) al Nord (e in particolare in Veneto, Emilia Romagna, Lombardia e Piemonte) e impiegano, mediamente, 58 addetti ciascuno.

La maggior parte dei produttori di farina di grano tenero (64,4%) ha, però, dimensioni modeste: capacità produttiva compresa fra le 10 e le 100 t/24h, 26 addetti in media, 32 mila t complessive lavorate e fatturato totale inferiore ai 14 milioni.
La maggior parte (82%) dei molini a grano duro è ubicata nel Sud, soprattutto in Sicilia (43%) e Puglia (20%), ma quelli grandi, ossia con produttività media di 544t/24h, si trovano soprattutto in Puglia, Abbruzzo, Toscana, Emilia Romagna e Campania.
Questi molini, che lavorano complessivamente quasi 169 mila t di grano duro all’anno e impiegano, mediamente 25 addetti ciascuno, producono un fatturato totale di 56 milioni di €. Oltre la metà dei produttori di farine grano duro italiani, tuttavia, ha una bassa capacità produttiva (10-50t/24h e 12 addetti) e genera un fatturato complessivo inferiore ai 3,5 milioni di €, lavorando meno di 7 mila t all’anno di materia prima.
Grano duro redditività maggiore
Il vantaggio di redditività assicurato dalle grandi dimensioni è più evidente per i molini a grano duro che per quelli a frumento tenero. Infatti, per ogni t di input, il reddito di un molino a grano duro grande è di 7,45 €, contro gli appena 0,76 € di quello piccolo, mentre nel caso di molini a grano tenero il divario è minimo: 10,14 € per il piccolo e 10,44 € per il grande.
In generale i molini di grande dimensione, pur avendo costi unitari di produzione inferiori del 17%, forniscono prevalentemente industrie, grossisti e grande distribuzione organizzata (GDO), spuntando prezzi di vendita inferiori del 15% rispetto molini piccoli (che, invece, vendono principalmente a laboratori artigiani e ristoranti).
Le voci di costo
Ma quali sono le principali voci di costo? Nel 2020 per i molini a grano tenero, oltre all’acquisto di frumento (60% dei costi totali), avevano un peso rilevante la manodopera (9,6%), il confezionamento (5,4%) e l’energia (3,7%); i molini a grano duro spendenevano molto per gli approvvigionamenti di materia prime (84%) e per l’energia (4%). Due anni l'incidenza di acquisto di materia prima è praticamente raddoppiata. Quella per l'energia triplicata.
Le grandi imprese, in ogni caso, possono acquistare il frumento a prezzi inferiori (mediamente del 2,3% nel caso del tenero e del 3% nel caso del duro), risparmiano il 50% sui costi della manodopera e beneficiano di un minor impatto di ammortamenti e spese fisse sui costi unitari di produzione.

Pasta e pane: c’è spazio anche per i piccoli.
Tra le imprese di seconda trasformazione, ossia quelle che utilizzano come materia prima le farine dei molini per produrre alimenti, prenderemo in considerazione esclusivamente i pastifici ed i panifici industriali.
I pastifici italiani di grandi dimensioni hanno una capacità produttiva media di 934 t/h e generano un fatturato complessivo di 143 milioni di €, impiegando ben 271 addetti ciascuno. Ubicati principalmente in Campania, Puglia, Emilia Romagna e Veneto, registrano una produzione complessiva di 160.000 t all’anno di pasta secca.
Gran parte della produzione (68%) viene esportata ed i principali canali distributivi sono la GDO e gli intermediari all’ingrosso.
Accanto a queste grandi aziende sopravvivono molti piccoli pastifici, con capacità produttiva di 129 t/h e, in media, 66 addetti ciascuno. La quota della loro produzione, pari a 30.000 t all’anno (per un fatturato complessivo di quasi 31 milioni), destinata ai mercati esteri tocca addirittura l’85%.
Costi alle stelle
Sotto l’aspetto dei costi unitari, la capacità produttiva rimane determinante: produrre una t di pasta in un pastificio di grandi dimensioni (capacità produttiva superiore a 200 t/h) costa il 40% in meno rispetto a produrla in uno piccolo. I risparmi unitari legati alle dimensioni riguardano, oltre ai consueti costi fissi ed ammortamenti, l’acquisto di materie prime (-7%), la manodopera (- 50%) ed i materiali di confezionamento (- 36%).
I pastifici di grandi dimensioni, fornendo principalmente GDO e grossisti, spuntano prezzi di vendita inferiori di quasi il 30% rispetto ai piccoli e questo differenziale si ripercuote sulla redditività: 1 t di pasta fornisce un utile netto di 23,90 € ad un piccolo produttore e di 17,20 € ad uno grande.
I costi che pesano maggiormente sui pastifici sono gli approvvigionamenti di materie prime (40/50% dei costi totali), la manodopera (10/12%) ed i materiali di confezionamento (10%).
Anche i panifici industriali vengono classificati, sulla base della capacità produttiva, in piccoli (meno di 10 t/24h) e grandi.

Panifici piccoli resistono
I Panifici italiani di grandi dimensioni italiano, hanno una capacità produttiva media di 50 t/24h e producono 13.800 t di pane all’anno, per un fatturato complessivo di 16 milioni di €. Le loro vendite sono destinate per il 70% alla GDO e per il 15% agli intermediari commerciali.
I piccoli panifici, che impiegano mediamente 20 addetti (contri i 97 dei grandi), hanno una capacità produttiva media di 6t/24 h e producono meno di 1000 t di pane all’anno, per un fatturato complessivo inferiore a 1,8 milioni di €.
Nonostante i maggiori costi (spese fisse, ammortamenti e manodopera), i panifici di piccole dimensioni, grazie a prezzi di vendita più altri del 20%, hanno una redditività sostanzialmente analoga a quella dei grandi produttori di pane: in entrambi i casi 1 t di pane garantisce un reddito netto di 23,6 €.
In conclusione i piccoli produttori, pur svantaggiati in termini di costi, possono ritagliarsi un proprio spazio in virtù dei maggiori prezzi di vendita.